Carissimi fratelli e sorelle, Fiat!
La Parola è una grande protagonista della battaglia che si scatena nel deserto. Da una parte Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, sospinto dallo Spirito che lo riempie oltre modo come aveva riempito di grazia traboccante la Madre. Dall’altra il maligno, subdolo compagno di 40 giorni di solitudine e privazione, che della debolezza condivisa dal Figlio ne fa occasione di tentazione e di prova.
La Parola è l’arma vincente di Gesù. Egli si appella alla sua forza che agisce, alla sua efficacia che disarma, alla sua potenza che genera e trasforma. Gesù conosce bene la Parola, perché Egli è la Parola; ma allo stesso tempo è la Parola che gli rivela la propria vocazione e missione.
Tuttavia, qualcosa di scandaloso accade: anche il diavolo conosce la Parola, e la cita e la utilizza per rendere più dura e insidiosa la tentazione. Si può essere perfetti conoscitori della Parola, senza che questa diventi motivo di salvezza e di trasfigurazione. Come è possibile? Che cosa differenzia il Figlio di Dio che salva da satana che accusa e condanna?
Due percorsi, due ambienti di vita si manifestano come necessari affinché la Parola resti se stessa, strumento di liberazione.
Il primo, è la viscerale solidarietà con la fragilità della creatura umana. Gesù percorre questo itinerario nel deserto: sperimenta nella carne la debolezza, fino ad avere fame. Ebbe davvero tanta fame! Ebbe cioè nelle proprie membra i segni tangibili del prezzo di essere umani; sentì tutto il peso della creatura, peso paradossale perché viene dal vuoto della propria piccolezza. Gesù, che è Dio, sentì tutto lo svuotamento di chi non è Dio, pur desiderando ardentemente raggiungerne le vette. In questa esperienza di vita, in questo coraggioso cammino dentro le vertigini del deserto, che genera smarrimento e bisogno, Gesù è rimasto senza sconti. Ecco il primo passo necessario affinché la Parola resti se stessa e sia vera: deve ardere della bruciatura del nostro limite, deve tagliare come spada a doppio taglio le aspirazioni umane che rivendicano grandezza, facendo sentire tutto il dolore delle potature. Gesù ne porta la ferita nella carne. Per questo la Parola è illuminata dalla fiamma dello Spirito.
Non così il maligno, che guarda la debolezza come uno spettatore scettico e la rifiuta quale impedimento alla propria realizzazione. Per questo, ci insegna la fede, Egli cadde dal Paradiso, perché rivendicava una esistenza di creature con le prerogative di Dio. Chi guarda la vita, fatta di povertà e dolore, come si guarda uno spettacolo da giudicare e rifiutare soltanto, non può cogliere la Parola nella sua potenza rivelatrice e liberatrice, ma ne farà un oggetto a proprio uso e consumo per giustificare il proprio accanimento egoista.
Ma non basta stare dentro la vita, per viverla bene e vincere le tentazioni. È anche necessario avere lo sguardo rivolto verso l'altro, verso l’Altro. Non essere concentrati solo su se stessi. È il secondo ambiente vitale, la relazione di consegna. Gesù ha gli occhi fissi sul Padre. Egli è il Figlio, ma Lui è il Padre. E la Parola è di Dio: Gesù si lascia possedere e condurre, perché non si percorre la via del deserto da soli. La Parola citata solo a partire dai propri bisogni è sfigurata. Il diavolo ne abusa, perché ha lo sguardo concentrato su se stesso, e degli altri vuole solo farne uno strumento da sfruttare. Ecco allora che la Parola può davvero divenire per noi la forza di una prova che trasforma se abbiamo continuamente il cuore ancorato alla Fonte, e gli orecchi attenti ad ascoltare Colui che la pronuncia.
È l’esperienza del popolo di Israele, per il quale il deserto è cammino voluto proprio da Dio. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore” (Dt 8,2). La Parola di Dio diviene guida, impegnativa e dura come lama affilata che discerne il bene dal male nel nostro cuore. Ma lo è soltanto se siamo costantemente preoccupati di rivolgerci - di tornare a volgerci - a Dio stesso, che questa Parola pronuncia incessantemente con la propria Voce di misericordia. Nessun utilizzo individualista della Parola è fonte di bene; nessuna Parola “è soggetta a privata interpretazione” (2Pt 1,20), ci ricorda l’apostolo Pietro.
Dell’esperienza dei 40 giorni nel deserto ne parla Gesù a Luisa nel brano dell’8 settembre 1927, dove afferma che il suo andare nel deserto è stato per richiamare quella stessa Volontà Divina, che per quaranta secoli le creature avevano disertato da mezzo a loro, Gesù per quaranta giorni ha voluto starsene solo, per riparare i quaranta secoli di volontà umana in cui la Sua non aveva posseduto il suo regno in mezzo all’umana famiglia, e con la sua stessa Volontà Divina la voluta richiamare di nuovo in mezzo a loro, per fare che regnasse. Nel ritornare dal deserto l’ha depositata cuore di sua Madre, con tutti quegli atti di Volontà Divina che le creature avevano respinto e tenuto come in un deserto, affinché fosse Lei la fedele depositaria, la riparatrice del regno della Divina Volontà e colei che lo implora. Solo la Sovrana Signora poteva possedere questo deposito così grande, perché possedeva in sé la stessa Volontà Divina in cui poteva contenere la stessa Volontà disertata dalle creature. Nel dolore di quella separazione da sua madre per quaranta giorni erano più che felici, perché volevano mettere in salvo il regno del “Fiat Supremo”, e la Celeste Regina stava aspettando con ansia il mio ritorno per ricevere il deposito del nuovo Sole, per contraccambiare col suo amore tutti i suoi atti, che l’ingratitudine umana aveva respinto. Essa ha fatto da vera Madre alla Divina Volontà, facendo insieme da vera Madre alle creature, impetrando per tutti la vita, la felicità, la gioia di possedere il regno dell’Eterno Fiat.