Carissimi fratelli e sorelle, Fiat!
La pagina del Vangelo di questa Domenica è la conclusione del discorso della pianura di San Luca, che illumina la dottrina di Gesù con tre «parabole», o similitudini.
Due hanno immagine centrale l’occhio, la terza l’albero e i frutti.
Leggendole è importante non separarle da ciò che le precede: se non si tiene conto di quanto ha detto Gesù si rischia di intenderle come consigli di buon senso, abbastanza ragionevoli, che rasentano l’ovvietà.
La prima parabola afferma che se un cieco guida un altro cieco cadranno ambedue in una buca. Come dire: chi fa da guida, o da maestro, deve vedere meglio, deve sapere di più. Naturale, verrebbe da dire. Un po’ meno, se si considera che la parabola ha l’intento di illustrare i detti che riguardano l’amore dei nemici, la necessità di essere misericordiosi, e l’invito a non condannare, anzi ad essere generosi.
Se si pensa a quanto siamo naturalmente calcolatori nel metterci a disposizione, a quanto misuriamo con cura bancaria le cose che doniamo, a quanto ci è difficile perdonare, per non parlare dell’«amore» ai nemici, forse riusciamo a capire cosa significa essere «ciechi», e dove possiamo sperare di ritrovare la luce.
Gesù mette la nostra relazione con lui nei termini di discepolo e maestro, ed espande il paragone offrendo un traguardo che rivela la sua gentile benevolenza: ci dice che un discepolo «ben preparato» può diventare «come il suo maestro»!
Nel contesto della parabola si capisce bene cosa significa questo essere discepoli: si tratta di guardare a lui, di contemplare la sua «misericordia», che è l’incarnazione e il riflesso della misericordia del Padre celeste; così il nostro occhio si illumina, la nostra vista diventa più acuta.
Ha scritto Giovanni: «Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v’è in lui occasione di inciampo.
Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (lGv 2,10-11). Del resto, non diciamo forse anche noi che l’odio acceca?
Anche la seconda parabola ha come punto di riferimento l’occhio, che non è più del tutto cieco, ma resta comunque pericolosamente ingombro, nientemeno che da una «trave»!
Questo accade quando osserviamo con meticolosità la «pagliuzza’ nell’occhio del fratello.
Normalmente noi siamo molto rapidi a chiamare «trave» i difetti altrui e «pagliuzza» i nostri, ma Gesù non ci lascia in questa illusione, e inverte semplicemente i termini del confronto.
Ha appena detto: «Non giudicate e non sarete giudicati: non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (6,37). La parabola illustra, la condizione per poter praticare gli insegnamenti di Gesù.
La traveche rovina la nostra vista, dunque, non è tanto un singolo particolare peccato quanto piuttosto un atteggiamento di fondo. La trave è fondamentalmente la presunzione di essere giusti, che invece di aiutarci a vedere e a comprendere ci mette su un piedestallo dal quale giudichiamo e condanniamo.
La presunzione poi si rovescia quasi naturalmente nell’ipocrisia: quando si fissano parametri troppo alti, che ignorano la fragilità della nostra condizione, e soprattutto quando ci si presenta come coloro che hanno realizzato l’ideale, è inevitabile che prima o poi si arrivi a mentire.
A questo punto interviene la terza similitudine: quella dell’albero e dei frutti, che significa curare le radici. Come l’occhio si radica nel cuore, così l’albero si radica nella terra: quello che si vede spiega quello che non si vede. Se il nostro cuore e la nostra terra sono il Signore Gesù ne conseguirà un occhio che illumina, un occhio che guarda con compassione. e un albero che produce frutti di misericordia e di carità.
In un brano del 28 gennaio 1926 Luisa si è posta una domanda: come mai Gesù, che desidera fortemente che la sua volontà operi nella creatura così come l’ha creata, come se non ci fosse stata nessuna rottura tra la Sua Volontà e quella della creatura; perché, nel venire sulla terra a redimerci non ci ha dato questo gran bene, cioè quello di metterci nell’ordine della Creazione, come siamo usciti dalle mani del nostro Celeste Padre? E Gesù le risponde affermando che lo scopo primario della Sua venuta sulla terra è stato proprio questo, che l’uomo ritornasse nel grembo del Volere Divino, come quando è stato creato; ma per fare ciò ha dovuto formare per mezzo della sua Umanità la radice, il tronco, i rami, le foglie, i fiori da cui dovevano uscire i frutti celesti del Divin Volere. Nessuno ha il frutto senza l’albero. Quest’albero è stato innaffiato dal Suo sangue, coltivato dalle Sue pene, dai Suoi sospiri e lacrime; il sole che splendeva su di lui era solo il Sole della Divina Volontà. Quindi, ci saranno con certezza i frutti del Divin Volere, ma per desiderare i frutti si deve conoscere quanto sono preziosi, il bene che apportano, le ricchezze che producono. Ecco perché le tante manifestazioni sulla vita nel Divin Volere, perché la conoscenza porterà il desiderio di mangiarlo, e quando avranno gustato che significa vivere solo per fare la Volontà di Dio, se non tutti, in parte almeno ritorneranno sulla via del Divin Volere, le due volontà si daranno il bacio perenne, non ci sarà più contesa tra la volontà umana e quella del Creatore, e la Redenzione, dopo tanti frutti che ha dato, darà anche il frutto del “Fiat Voluntas tua, come in Cielo così in terra”.
Carissimi, facciamo di tutto per essere noi a prendere questo frutto e non volere altro cibo né altra vita che la sola Volontà di Dio!