Carissimi fratelli e sorelle, Fiat!
Stando alle rilevazioni statistiche stiamo, pur faticosamente, uscendo dalla lunga crisi economica: che tuttavia ancora ci attanaglia, con gravi corollari quali la disoccupazione specie giovanile e l’accresciuto numero di quanti vivono in stato di povertà. Confidando che la situazione migliori rapidamente, e considerando che - tanto o poco - tutti possediamo qualcosa, resta utile riflettere sulle letture di oggi, relative al valore da attribuire ai beni materiali.
“Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male”, dice il saggio (Qo 2,21). E lo esemplifica il vangelo (Lc 12,13-21): “Uno della folla disse a Gesù: Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Passano gli anni, i millenni; il mondo cambia; ma certe cose non cambiano mai. Quante volte accade anche oggi che i fratelli litighino per l’eredità! Un uomo si industria per tutta la vita ad accumulare beni da lasciare ai figli, e in realtà lascia loro il seme di discordie, rivendicazioni, rancori che si trascinano per anni e talora non si placano più. Nel caso sottopostogli, Gesù rifiuta di intervenire: non per disinteresse verso le persone coinvolte ma per invitare, loro e quanti lo stanno ascoltando, ad ampliare gli orizzonti, trasformando l’episodio nell’occasione per parlare delle ricchezze: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede”.
Desiderare i beni occorrenti a una vita sicura e dignitosa, a un futuro sereno per sé e i propri cari, è senz’altro legittimo; non c’è pagina della Bibbia che lo biasimi. Altro però è considerare i beni materiali come “il” bene supremo, cui tutto subordinare; porsi come scopo della vita l’accumulare quanto più si può, magari senza badare ai mezzi, se leciti o no, spesso calpestando giustizia, verità, misericordia, talora persino gli affetti familiari. La bramosia della ricchezza è una bestia che tutto divora, compreso chi se ne lascia dominare.
A fronte di questa ebbrezza, che talora diventa ossessione, Gesù racconta la breve parabola del ricco baciato da nuova fortuna, il quale elabora progetti da gaudente: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni; poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma, continua il racconto, “Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Così è, conclude la parabola, “di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”.
Con questo esempio, Gesù invita anzitutto a usare la testa: prima delle considerazioni dettate dalla fede vengono quelle, per così dire, naturali, che per un uomo dotato di intelligenza dovrebbero essere ovvie. Usare la testa: vale la pena di arrabattarsi tanto, quando non si è sicuri neppure di arrivare a sera? E la prospettiva, si sa, non è campata in aria: nessuno è esente dal rischio di un infarto o di un incidente stradale. Dunque stolto, umanamente stolto cioè povero di intelligenza, è chi si fa prendere nel vortice dei beni materiali.
Solo dopo, chiarito l’aspetto umano, Gesù invita a uno sguardo di fede: lo scopo primario nella vita di un uomo dovrebbe consistere nel preoccuparsi di ciò che la trascende, cioè che va oltre: duri un giorno o cent'anni, questa vita in ogni caso è limitata. E dopo? Le ricchezze vere non sono quelle che lasceremo qui, ma quelle che potremo portare con noi: è il bene compiuto; è la fede in Gesù, unica salvezza; è la speranza, coltivata giorno per giorno, di vivere per sempre con lui.
La vera virtù ci insegna Gesù attraverso Luisa, comincia da Dio e in Dio finisce. Il segno per conoscere se uno ha carità vera è se ama i poveri, perché se ama i ricchi e a loro si presta, perché da essi spera, perché ottiene o perché li simpatizza, o per la nobiltà, per l’ingegno, per il bel dire, e anche per timore; ma se ama i poveri, li aiuta, li soccorre, è perché vede in essi l’immagine di Dio, quindi non guarda la rozzezza, l’ignoranza, la sgarbatezza, la miseria. Attraverso queste miserie, come da dentro un vetro, vede Dio, dal Quale tutto spera, e li ama, li aiuta, li consola, come si farebbe con Dio stesso. Ecco la tipologia della vera virtù, che da Dio incomincia e in Dio finisce; ma ciò che comincia dalla materia, materia produce e nella materia finisce. Per quanto pare splendida e virtuosa la carità, non sentendo il tocco divino né chi la fa né chi la riceve, restano infastiditi, annoiati e stanchi, e se occorre se ne servono per compiere mancanze.